E adesso quale ruolo ho? (Ruoli parte 1)
In un articolo di qualche settimana fa (prima dell’Estate!) Vi avevo raccontato della Social Identity Theory (SIT) che si basa sulla organizational identity, l’identità dell’/nell’organizzazione che ci consente di riconoscerci nel contesto (sociale) della nostra organizzazione e del nostro team. Secondo questa teoria scientifica, le persone tendono a classificare sé stesse e gli altri sulla base di categorizzazioni sociali (per esempio l’appartenenza a un gruppo, a una chiesa, a un genere, a una fascia demografica e via dicendo) e così facendo trovano il posizionamento del proprio sé nel loro mondo relazionale e sociale; in un certo senso, queste categorizzazioni aiutano a meglio caratterizzare la nostra identità personale e la nostra identità sociale e in effetti, proprio in ragione di questa visione teorica, un individuo tende a definirsi e a caratterizzare la propria unicità anche in relazione alla propria appartenenza a gruppi e comunità.
Mi colpisce in particolare il peso che questo modo di intendere le organizzazioni assegna al concetto di ruolo. In generale, ci sembra di aver bene in mente quale ruolo occupiamo, o non occupiamo, nella nostra vita sociale, ne individuiamo alcuni: al lavoro, con gli amici, in famiglia…. In realtà ne ‘interpretiamo’ moltissimi nella nostra vista sociale e organizzativa, al punto che si può parlare di micro-ruoli. Passiamo da uno all’altro senza rendercene conto e lo facciamo a volte con semplicità, altre con fatica. Spesso abbiamo difficoltà a svolgere un compito perché non capiamo che ‘ruolo’ dobbiamo mantenere nell’azione in corso, oppure perché in uno scambio relazionale ne stiamo interpretando/usando uno dissonante.
Insisto su questo aspetto e ne abbiamo parlato spesso con Paolo Chinetti, perché la SIT ci spiega che la nostra identità sociale non è importante solo perché ci porta ad interiorizzare i valori e le credenze delle organizzazioni cui sentiamo di appartenere, ma le reifica e le traduce in simboli che hanno a che fare con i luoghi, i riti, i ritmi, le relazioni che associamo al nostro ruolo nell’organizzazione. Come abbiamo detto, un individuo definisce sé stesso anche attraverso i gruppi sociali cui appartiene (e naturalmente, attraverso il ruolo che vi svolge). È un aspetto ancora più importante quando si parla di team: i team si fanno e si disfano, sono avulsi o sono calati nelle organizzazioni ed è importante che i ruoli ‘organizzativi’ della vita aziendale non collidano o siano in completo disallineamento con i ruoli del gioco di squadra: si tratta di relazioni che vanno progettate.
In un bell’articolo, ‘All in a day’s work’ di Blake Ashforth, il tema della coesistenza e della transizione fra microruoli attraverso confini e riti di passaggio viene approfondito in maniera affascinante.
Più la società si struttura, più le organizzazioni si fanno complesse e maggiore è il numero di ruoli che dobbiamo ricoprire (giusto per non dire interpretare…), anche solo durante il corso di una giornata. E quindi sempre più frequenti sono le transizioni dall’uno all’altro che dobbiamo affrontare e gestire, il più delle volte inconsciamente; le possiamo classificare in tre tipologie principali: lavoro-lavoro (relazione con il capo, relazione con i colleghi, relazione con i fornitori o i clienti, ecc.), lavoro-casa (con i figli alle porte della scuola, al lavoro, di nuovo a casa la sera, con i propri genitori, ecc.), lavoro/casa-altra organizzazione (dal lavoro all’associazione sportiva, alla chiesa, alla riunione di condominio, ecc.). Il confine tra un ruolo e l’altro è in parte determinato dalla organizzazione sociale e in parte da noi. Siamo noi che reifichiamo e simbolizziamo il contesto in cui esercitiamo il ruolo, e quindi siamo noi che creiamo i riti di passaggio. I confini tra un ruolo e l’altro possono essere più flessibili – e quindi i ruoli tendono a sovrapporsi (dal lavoro funzionale al lavoro di squadra) con la difficoltà che ci si stacca più lentamente e meno consciamente da un ruolo – oppure possono essere più rigidi (ad esempio il lavoro in ufficio): senza questi confini sarebbe lo stress totale. A volte sono confini così rigidi, o siamo così identificati col ruolo corrente, che – esempio classico – ci troviamo in famiglia a interpretare il ruolo del lavoro…
È per questa ragione che il remote working è così stravolgente (e non abbiamo ancora finito di rendercene conto): di fatto esso rade al suolo tutti i simboli e i riti di passaggio della presenza in ufficio. Un esempio attualissimo: in casa, con i bambini il giorno in cui la scuola è chiusa. Una mamma, o un papà, sono al lavoro al tavolo, quanto pensate che durino? Ecco in questo caso l’ufficio, una porta chiusa, un ambiente dedicato: questo sono tutti elementi che generano un confine, proteggono il ruolo e rendono più rigida la transizione da quello di lavoratore a quello di genitore per esempio. Oppure, sempre in casa ma senza spazi di relazione, barriere di segretarie, pause pranzo in mensa: i ruoli si sbilanciano, i confini si confondono, forse è da qui che nasce la consapevolezza che spinge verso il quiet quitting o la great resignation… una sorta di abbandono delle certezze e degli schemi che arrivano dalla segmentazione e strutturazione di ruoli e di assaporamento di una nuova opportunità di interazione sociale.
Torniamo ai team. E quindi?
Ne #ilteamgiusto, con Paolo, abbiamo stressato molte volte il tema della memoria transattiva, dell’apprendimento e della gestione della conoscenza come veicoli per far emergere processi di gestione ottimale del lavoro. Ma anche i ruoli che i membri del team giocano devono essere chiari, e devono, laddove si decida che siano intercambiabili, identificati da confini e riti di passaggio molto evidenti e, soprattutto, condivisi. Se si creano delle routine di ‘passaggio di ruolo’ ecco che l’integrazione fra compagni di squadra diventa fluida e soddisfacente. Nei giochi di squadra come il calcio il problema si risolve con il numero di maglietta: al numero corrisponde un ruolo, chi lo indossa ci entra e gli altri lo sanno!
Da questo punto di vista, il feedback è uno strumento efficacissimo per il rafforzamento della consapevolezza del proprio ruolo: attraverso la retroazione innescata dal feedback non solo correggiamo o incrementiamo certi comportamenti operativi, ma strutturiamo meglio i riti di passaggio che ci fanno entrare ed uscire nel ruolo.
Allo stesso modo, è altrettanto importante trovare dei momenti in cui la squadra si ‘sveste’ dei ruoli e, con un rito di passaggio (una birra, una cena, una gita) cambia dimensione e diventa qualcos’altro: per esempio un gruppo di compagni di viaggio che si gode una sosta. Queste occasioni ci danno la possibilità di rivedere le nostre relazioni in una chiave diversa e aumentano la consapevolezza dei processi del lavoro di squadra.
E ancora, quando la squadra si forma oppure si scioglie, è importante avere coscienza del ruolo in cui si entra o di quello da cui si esce, passando il ‘confine’ che li separa in maniera da ricondursi facilmente nell’alveo delle aspettative relazionali della nostra organizzazione.
E si potrebbero fare ancora molti esempi e distinzioni.
C’è dell’altro che vi voglio raccontare, soprattutto perché stiamo assistendo ad un’altra velocissima trasformazione: quella della durata e dell’alternanza dei task così come la va delineando il lavoro remoto.
Intanto ditemi cosa ne pensate di quello che vi ho raccontato!